3 novembre 2025 - Ferdinando Ametrano
Con la legge di bilancio 2025, il governo conferma l’innalzamento al 33% della tassazione sulle plusvalenze da cripto-attività, scelta ereditata dalla precedente finanziaria e mai corretta. È un passo indietro che delude chi sperava in una politica economica capace di guardare con lungimiranza al futuro digitale del Paese.
Nella legge di bilancio 2023, l’Italia aveva finalmente definito un quadro organico di tassazione per le cripto, allineando l’aliquota al 26% sui redditi diversi di natura finanziaria. Era stato un segnale importante: anticipava infatti la direzione poi indicata nel regolamento MiCA dall’Unione Europea quando dichiara “un interesse politico nello sviluppo e nella promozione dell’adozione di tecnologie trasformative nel settore finanziario che, insieme al settore stesso delle cripto-attività, porteranno a una crescita economica e a nuove opportunità di lavoro per i cittadini dell’Unione”. Poi, nella legge di bilancio 2024, arrivò il tentativo di portare l’aliquota al 42%: un blitz normativo che trovò fortunatamente un ampio fronte critico, trasversale tra maggioranza e opposizione. Tuttavia rimase scritta la previsione dell’aumento al 33% per il 2026. La speranza era che il disegno di legge di bilancio 2025 rimuovesse definitivamente questa impostazione ma non è stato così. A rendere il quadro più deludente c’è anche la scomparsa della possibilità di rivalutare le cripto-attività possedute pagando il 18% del valore, nonostante il vice ministro Maurizio Leo l’avesse indicata come punto qualificante del quadro fiscale.
L’aumento al 33% è una misura punitiva che tradisce un pregiudizio culturale verso le cripto-attività, viste ancora come strumenti di speculazione e non come risparmio legittimo. La nostra Costituzione all’articolo 47 tutela il risparmio “in tutte le sue forme”: non soltanto BOT e azioni, ma anche Bitcoin e asset digitali detenuti con finalità patrimoniali e di diversificazione. Trattare queste forme di risparmio con un’aliquota più alta rispetto alle altre è una discriminazione evidente: non si capisce perché chi investe in strumenti tradizionali debba essere tassato al 26% e chi investe in Bitcoin al 33%. La sproporzione diventa ancora più ingiustificabile se poi lo stesso Bitcoin, detenuto tramite ETF, continua a essere tassato al 26%. Stessa esposizione economica, stessa natura patrimoniale, stessa rischiosità: l’unica differenza è la forma tecnica dell’investimento. Se a parità di sostanza economica si applicano regimi fiscali diversi, ciò è contrario a qualsiasi principio di equità e razionalità tributaria.
Le conseguenze di questa impostazione miope sono già evidenti: dopo la legge di bilancio 2024, i dati OAM mostrano un calo negli attivi cripto detenuti dagli investitori italiani presso intermediari vigilati, nonostante il valore di mercato delle principali criptovalute sia cresciuto. Preoccupati dall’incertezza fiscale e intimoriti da un atteggiamento percepito come predatorio, gli italiani stanno evidentemente spostando i loro investimenti dal perimetro fiscalmente monitorato degli intermediari autorizzati in Italia verso l’autocustodia o giurisdizioni più stabili e competitive. Questo esodo digitale si traduce in minore gettito per l’Erario; una lezione che Luigi Einaudi aveva già scolpito nella storia economica italiana: “Gli esportatori illegali di capitale sono benefattori della Patria, perché i capitali scappano quando i governi sono dissennati e, portandoli altrove, li salvano dallo scempio e li preservano per una futura utilizzazione, quando sarà tornato il buon senso.” Parole di ottant’anni fa, oggi di inquietante attualità.
La legge di bilancio 2024 aveva evitato il disastro del 42% ma lasciare in piedi il 33% ha solo spostato in avanti il problema. Ora il disegno di legge di bilancio 2025 lo consolida e ignora persino le osservazioni della Banca d’Italia, che in audizione parlamentare aveva richiamato la necessità di stabilità e coerenza nelle regole fiscali. I contribuenti hanno bisogno di certezze, non di un quadro normativo che cambia di anno in anno inseguendo più l’istinto che la ragione. Una tassazione così strutturata non solo è sproporzionata e incostituzionale nei principi, ma è anche controproducente nei risultati: scoraggia la trasparenza, disincentiva gli investimenti, riduce il gettito. L’Italia dice di voler stimolare l’innovazione digitale, trattenere i giovani talenti, attrarre capitali e imprese innovative. Poi però costruisce un sistema fiscale che ottiene esattamente l’opposto.
Per correggere questo errore serve ripristinare l’aliquota sulle plusvalenze al 26%, rendere strutturale la possibilità di operare la rivalutazione pagando il 18% del valore, estendere la compensazione tra plusvalenze e minusvalenze relative a diverse attività finanziarie (cripto incluse) e uniformare il calcolo delle plusvalenze cripto a quello adottato per i redditi diversi di natura finanziaria su valori mobiliari (ad esempio includendo i costi transazionali nel prezzo di carico).
Come docente universitario e imprenditore del settore, continuerò a chiarire un concetto semplice: una fiscalità moderna sulle cripto non significa indulgenza ma certezza del diritto, non tolleranza ma equità. E significa soprattutto rispetto per chi opera legalmente e contribuisce allo sviluppo dell’economia digitale italiana. Se l’Italia vuole davvero partecipare al futuro finanziario globale, deve smettere di trattarlo come un pericolo da reprimere e iniziare a riconoscerlo come un’opportunità da governare. Quando tornerà il buon senso, la ricchezza che oggi fugge forse potrà tornare a casa.
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